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WOLF - LA BELVA È FUORI
(WOLF)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 3 ottobre 1994
 
di Mike Nichols, con Jack Nicholson, Michelle Pfeiffer, James Spader, Christopher Plummer (Stati Uniti, 1994)
 
Il cinema americano non lascia mai nulla al caso. È la ragione della sua forza, come della sua debolezza. Abile, ambizioso, ed incerto, l'ormai veterano Mike Nichols è perfettamente ad immagine di quella formula. Nel bene e nel male, WOLF non può che esserne l'ennesima riprova: far riflettere, e divertire. Ergo, far soldi.

Will Randall è ai vertici di una granda casa editrice. Ma ha fatto il suo tempo, e non solo per l'età che è quella di un Jack Nicholson una volta tanto ispirato e, sopratutto, misurato. Ma Will Randall è ormai respinto nella professione (che lo ritiene "non sufficientemente cinico e volgare"), nella famiglia (la moglie lo cornifica, e proprio con l'odioso rampante della casa editrice), insomma nella filosofia che ha fatto grande l'America e non solo l'America. Mentre rientra una sera in macchina, Will investe, e viene morso da un lupo: progressivamente, non solo la peluria dell'animale (nella miglior tradizione del lupo-mannaro che si risveglia al chiaro di luna) incomincia ad invaderlo. Ma lo spirito (vogliamo dire il Mito?), quello che al lupo ha sempre assegnato l'immaginario umano fin dai tempi dell'Antichità. Ferocia e barbarie incontrollabile: ma pure forza e fierezza, quell'energia fisica e morale che proviene dall'assenza di un altro tipo di imbarbarimento, quello della società, e della morale distorta. E Will Randall rinasce nei sensi come nella psiche: fiuta ed ascolta a distanze inimmaginabili ai comuni mortali, compie balzi ed exploit fisici da extraterrestre: senza parlare di quello che combina verosimilmente nel letto di Michelle Pfeiffer, cosa sulla quale gli americani - inutile illudervi - glissano regolarmente.

Premesse splendide, per condurre in porto (sui due binari indispensabili alla riuscita cinematografica, quello del pensiero e quello dello spettacolo) l'ennesima variazione sul tema Jekill - Hyde che con tanta fertilità ha alimentato cinema e letteratura dell'ultimo secolo. Che la prima parte del film confermano, quasi sorprendentemente: non solo la splendida fotografia di Giuseppe Rotunno - tutta costruita su sfumati e chiaroscuri, trasparenze ambigue e folgoranti luminescenze -, ma pure l'uso squisito dei suoni, il taglio ritmico imposto al montaggio, conferiscono ai personaggi, ma più ancora al loro legame con l'ambiente (la natura, Manhattan, gli interni) quell'ambivalenza, quel carattere fantastico, costantemente in bilico fra ambiguità e poesia, che proprio occorreva.

Ma il cinema è essenzialmente una questione di stile. E la seconda parte del film (nella sceneggiatura, nel tono della regia) cade progressivamente nelle piaghe dello spettacolo, negli schemi, preoccupazioni e trucchetti che banalizzano ogni risvolto, e scontano gli effetti. Regolamenti di conti a botte e pistolettate distruggono tutta la magia del film; il suo significato, e persino la sua comprensione.

Nicholson con la sua peluria, la sempre affascinante Michelle fortunatamente con le sole pupille che iniziano a metamorforizzarsi, se ne partono a balzelli nel bosco. Per quel mondo di forza e purezza che ormai si è fatto più oscuro della notte dei lupi mannari. E per quello filosofico del regista: che, dal datti da fare che ti aiuta il Sogno, di quando girava UNA DONNA IN AFFARI, si è ormai mutato nel lascia perdere, che non contano solo i soldi. Ora che a vendersi è l'eco-pacifismo.


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